È ormai unanimemente accettato il fatto che le maschere popolari hanno origine diabolica, come proposto da Paolo Toschi. Il camuffamento veniva realizzato con abiti dismessi, pelli e pellicce ormai logore.
Registra Francesco Cossu: «Gli uomini si annerivano la faccia con la fuliggine dei paiuoli, si camuffavano buttandosi addosso tutti i cenci, infagottandosi di vecchiume, caricandosi di pelli, sonagli, campanelli, conducendo in mezzo alle brigate le figure sinistre degli antichi satiri, dei baccanti, dei coribanti, dei primitivi attori, di cui Tespi si serviva per rappresentare i primi abbozzi di tragedia, sopra i carri di città in città».
Francesco Alziator, a sua volta, sostiene che: «massima attrazione del carnevale sardo sono le maschere animalesche barbaricine. Qualunque sia l’origine più remota di questa manifestazione, certo è che in Sant’Agostino vi è una sicura testimonianza di mascherate ferine e di maschere animalesche.
Quando Alziator conduceva le sue ricerche in Sardegna i costumi animaleschi erano già scomparsi quasi ovunque, questo non implica, però, che fossero presenti solo in Barbagia; Francesco de Rosa riferendosi al carnevale in Gallura, alla fine dell’Ottocento, precisa infatti che: «fra le maschere che più riescono gradite sono i cosiddetti “buffoni” (mascari brutti), che indossano abiti sbrindellati, spesso sudici o pelli di vacca o di montone, o cuoi di bue o di vacca, con corde a tracolla o alla cintura, con sonagli e buccole che squillano continuamente. Cotali maschere, colle lepidezze, colle mimiche svariate, colle buffonate e colle curiose scene che rappresentano, fanno sganasciar dalle risa gli astanti; onde vengono seguiti da lungo codazzo di fanciulli.
Questi buffoni mascherati, oltre al diritto di lanciar liberamente motti pungenti e parole sconce all’indirizzo dei presenti o degli assenti, possono costringere anche i più restii, servendosi all’uopo della forza fisica, a ballare con loro, possono multare chi meglio credono, facendo pagare qualche moneta, un litro di vino o altro.
Del resto, è risaputo che fino ai primi anni del Novecento erano ancora in uso, a Tempio, il corpetto di pelliccia senza maniche (ciamarru) e uno un pelle rasata (cugliettu), «il travestirsi con pelli ferine o d’animali domestici –scrive De Rosa – è un tardo ricordo d’una delle primitive fogge di vestire di popoli galluresi». A questo punto la presenza della maschera zoomorfa in Gallura è innegabile. Di questa abbiamo una descrizione nel dizionario del Gana. Essa corrisponde a ciò che la tradizione popolare definisce come “Lu Traicoggju”.
Gana lo descrive come: «uno spirito» che trascina un «cuoio di bue o di cavallo al quale sono attaccati paioli vecchi, padelle, ciarpami e catene, percorrendo con altri famelici compagni le vie del paese». Questa maschera era dunque una maschera zoomorfa e, allo stesso tempo, anima di morto, che si aggirava per il paese, secondo la fantasia del popolino, seguita da altri spiriti inquieti, che possiamo individuare nella schiera dei morti (reula) di cui da’ testimonianza anche Gino Bottiglioni. Quale miglior occasione del carnevale per esorcizzare le proprie paure ed incuterne a chi apparentemente non ne ha, per rispolverare le maschere demoniache?
di M. Achenza